Iniziative 2001 SOLOVKI - Le Isole del Martirio La presentazione   

 


Il generoso inverno delle Solovki insigniva i detenuti del titolo di «lavoratori d'assalto» nello spalare la neve, e la parte del leone in questo lavoro la faceva la 9°compagnia.

Di giorno lavoravano negli uffici e nelle fabbriche. Per la neve facevano sempre alzare di notte, senza preavviso, per poter mandare al lavoro il maggior numero possibile di uomini.

Alle dieci-undici, oppure anche a mezzanotte nella compagnia echeggiava l'insistente, fastidioso suono della campana: «Levata! Prepararsi ad uscire! Lavoratori d'assalto a spalare la neve!»
La Chiesa di Sant'Andrea, costruita per ordine di Pietro il Grande nel 1702.

Era la cella di rigore femminile, terribile soprattutto d'inverno.
La Chiesa dell'Ascensione e l'eremo. Nella chiesa principale c'era il terribile carcere di isolamento punitivo della Sekira.

Qui erano detenuti i condannati ai lavori pesanti. Ad esempio, li si costringeva a portare l'acqua dieci volte al giorno su per la lunga scala di circa 300 gradini.
Dal colle della Sekira le guardie di scorta facevano rotolare i detenuti giù dalla scala legati a un tronco.

In basso non restava che un cadavere sanguinolento, riconoscibile solo a fatica. Li seppellivano direttamente in una fossa li accanto.
L'antico edificio in pietra bianca dell'ex eremo della Trinità ad Anzer, era adibito in parte a baracca femminile.

Nelle camerate non c'erano pancacci, ma cuccette singole, «tavolacci», e di notte ci si poteva spogliare.

Le comodità del luogo però finivano qui: per lavarsi bisognava scendere al lago, e si mangiava ciascuno seduto sulla sua brandina, perché nelle celle non esistevano tavoli.
Una croce presso un pozzo sull'isola di Anzer
Già allora presentivo confusamente che le Solovki sarebbero diventate una pietra miliare nella storia della Russia. Il simbolo del suo martirio.

Molti anni dopo, agli inizi degli anni '60, alcuni studiosi di mia conoscenza insistettero molto perché li accompagnassi in un viaggio turistico alle Solovki. Rifiutai. Perché sentivo che quell'isola si poteva visitare solo in pellegrinaggio. Come si visita un santuario o un monumento dedicato a eventi dolorosi, alle date nazionali più funeste. Come si visitano Auschwitz o Buchenwald.

La futilità di un viaggio turistico, di svago, mi appariva offensiva anche per le mie limitate esperienze... O invece avrei dovuto andare? E mostrare ai miei compagni di viaggio:

- Qui agonizzavano gli indipendentisti del Caucaso...

- Là sono sepolti i cadaveri con il cranio forato...

- Qui vicino, in un edificio senza tetto, d'inverno stavano degli uomini a piedi nudi. In mutande. Invece d'estate li esponevano alle zanzare...

Qui vicino alla riva, i detenuti trasportavano di corsa l'acqua da un foro nel ghiaccio all'altro... Per ore, all'odioso comando: «Tiratela su, dovete prosciugarla tutta!», accompagnato a generosi pugni nei denti...

Oleg Volkov

DA MONASTERO A PRIMO LAGER SOVIETICO
presentazione di Pigi Colognesi

L'intento che ha guidato la realizzazione di questa mostra è quello di acquisire una maggiore consapevolezza di questa circostanza storica, indubbiamente poco nota: non tutti, infatti, hanno idea di cosa sia un gulag, ancor meno conoscono le isole Solovki.
Si vuole dunque prendere in considerazione la realtà dei fatti attraverso le testimonianze di chi ha vissuto alle Solovki, e portare alla luce quelle figure - eroiche nella loro dignità - che sono ancora sconosciute ai più.
Occorre, in primo luogo, contestualizzare non solo geograficamente la nascita di questo primo gulag. L'arcipelago delle Solovki è situato nel Mar Bianco, nella parte settentrionale della Russia, in una zona in cui la temperatura raggiunge i cinque/sei gradi in estate e la terra è coperta dai ghiacci da settembre a marzo/aprile.
Tra il 1400 ed il 1500 nell'arcipelago sorse un monastero ortodosso, a seguito di una migrazione di monaci alla ricerca di silenzio nelle solitarie foreste del nord. In breve tempo il monastero si ampliò, e sorse una vera e propria cittadella fortificata. Furono costruiti ponti, canali e dighe; si tracciarono strade attraverso le paludi ed infine si organizzarono l'esercito ed il tribunale. La città era autonoma anche economicamente, poteva infatti contare sul frutto dei raccolti e sulla pesca, ed era dotata di un mulino. Nel tempo sorsero vere e proprie imprese industriali, e furono edificati numerosi capolavori architettonici.
Con l'avvento al potere dei bolscevichi - a seguito della rivoluzione dell'ottobre del '17 - la vita cambiò radicalmente anche alle Solovki. Il primo atto del governo fu la costituzione della cosiddetta "ceka" - la polizia segreta - per mantenere l'ordine ed il potere anche con mezzi extragiudiziari; in secondo luogo il nuovo governo procedette con la nazionalizzazione della Chiesa e di tutti i suoi beni.
Le Solovki parvero subito il posto ideale dove inviare i nemici del regime: i quattrocento monaci furono cacciati - eccetto quelli necessari al funzionamento delle officine - ed i prigionieri politici vennero dislocati nelle case dei monaci e nella cattedrale.
I primi detenuti erano uomini di formazione culturale non comunista, che avrebbero potuto costituire un pericolo per il governo a causa della loro influenza sul popolo. Alle Solovki sorse così un campo di lavoro, in cui i prigionieri - spesso intellettuali e uomini di cultura - portavano acqua da un pozzo all'altro o rotolavano tronchi: in una prima fase, infatti, il lavoro aveva uno scopo "educativo".
Questo primo periodo si concluse nel '29, con la strage causata da un'epidemia di tifo. La seconda fase vide la nascita del gulag vero e proprio, caratterizzato dal tentativo di ottenere il massimo profitto dal lavoro dei prigionieri: dalla realizzazione della "norma" - cioè del lavoro stabilito - dipendeva la quantità di cibo che si sarebbe ricevuta, e comunque lavorare era l'unico modo per non morire assiderati.
Le ispezioni ed i trasferimenti dei prigionieri da un reparto all'altro avvenivano di notte, sia per guadagnare tempo, sia per impressionare i detenuti. La cattedrale venne trasformata in carcere di rigore, e divenne il luogo in cui spesso avvenivano le fucilazioni; si crearono inoltre degli eremi punitivi, cui furono messi a capo comuni delinquenti.
Per avere un'idea delle condizioni di vita alle Solovki basti pensare che durante la notte i prigionieri dormivano ammassati l'uno sull'altro, formando vere e proprie cataste umane, per riscaldarsi a vicenda.
Il gulag era inoltre dotato di una stampa e di un teatro: si voleva convincere l'opinione pubblica - e per molto tempo vi si riuscì con successo - che il gulag fosse realmente un luogo di rieducazione, dove il delinquente poteva riscattare il suo essere cittadino.
Tra tutti i prigionieri detenuti alle Solovki vi erano numerosi ecclesiastici, appartenenti a tutte le confessioni. Dalle memorie di Ol'ga Jafa: "Chi di noi avrà un giorno la ventura di far ritorno nel mondo, dovrà testimoniare agli uomini quello che vediamo qui adesso... E ciò che vediamo è la rinascita della fede pura e autentica dei primi cristiani, l'unione delle Chiese nella persona dei vescovi cattolici e ortodossi che partecipano unanimi all'impresa, un'unione nell'amore e nell'umiltà, al di là di concili o dispute dogmatiche... E a questo fatalmente contribuivano, certo senza saperlo, proprio quegli uomini che avevano lo scopo di distruggere e profanare la fede cristiana! Sono veramente imperscrutabili le vie del Signore!". Ai cattolici russi, in particolare, venne concesso nel '25 di utilizzare la cappella di S. German, in un primo momento solo di domenica e nelle grandi feste, in seguito quotidianamente. La situazione cambiò nel '29, quando la cappella venne chiusa a seguito di un'ordinazione clandestina. Le camerate dei preti vennero perquisite, furono sottratti i libri ed i vasi sacri e gli ecclesiastici furono trasferiti in altre camerate, dove già alloggiavano politici e delinquenti comuni e dove celebrare sarebbe stato impossibile. Iniziò allora il periodo della Chiesa catacombale. In particolare, nel giugno del '29, i cattolici condannati per motivi religiosi vennero trasferiti sull'isola di Anzer, dove costituirono una sorta di piccola colonia. In un primo momento i preti stabilirono di trovarsi a pregare nel fitto dei boschi, successivamente iniziarono a celebrare nel sottotetto della baracca, e per quanto l'amministrazione cercasse di intervenire, soprattutto attraverso perquisizioni improvvise, non riuscì mai ad impedire le celebrazioni.
Dal 1992 i monaci sono tornati sulle isole ed anche gli edifici stanno gradualmente rientrando in possesso della Chiesa ortodossa
Non potendo ricordare tutti i nomi e le vicende dei prigionieri delle Solovki, vi leggo alcune testimonianze tratte dal libro "Solovki. Le isole del Martirio", quale esempio di dignità ed umanità anche nelle circostanze più avverse.
 

Si muore come cani...
Attraverso le memorie di Sirjaev, assistiamo allo sbarco e al primo contatto con la nomenklatura locale
 
Iniziò l'accettazione. Davanti ai nuovi contingenti apparve il comandante, o meglio il signore dell'isola, il compagno Nogtev: da lui e dalle tortuosità della sua fantasia psicotica dipendevano non solo i nostri passi, ma anche la stessa vita.
- Benone, cornacchie! - ci salutò il comandante. Era evidentemente sbronzo alla grande e incline all'ironia, di buon umore.
- Dunque, dovete sapere che da noi non c'è il potere dei Soviet (pausa, tra i ranghi serpeggia un certo stupore), ma di Solovki! Proprio così. Tutte le leggi adesso ve le potete scordare! Noi abbiamo la nostra legge! - poi passa a spiegare in che cosa consista questa legge, con espressioni poco comprensibili ma molto sboccate, che non ci promettono niente di buono...
Il benvenuto è finito. Comincia la parte operativa, l'accettazione del contingente. Nogtev si allontana ciondolando dal molo e sparisce dietro la porta della garitta delle guardie, lasciandoci con il comandante della Sezione amministrativa Vas'kov, un uomo-gorilla, senza fronte né collo.
Dapprima si svolge l'appello del clero.
- Che condanna hai? - chiede a quest'ultimo bianco come la neve, che con grande fatica arranca controvento, inciampando nei lembi della talare.
- Dieci anni.
- Bada bene di campare fino alla fine, non morire prima del tempo! Altrimenti il potere sovietico ti tirerà giù dal paradiso per la barba!
Il computo del clero è finito. Viene il turno dei controrivoluzionari.
- Daller!
Il colonnello di stato maggiore generale Daller si getta con gesto misurato il sacco in spalla e con lo stesso passo calmo e misurato si avvia verso la garitta di Nogtev.
Arriva fin quasi alla finestra e d'un tratto cade bocconi. Non avevamo sentito nessuno sparo, e comprendiamo quel che è successo solo vedendo la carabina nelle mani di Nogtev.
Due delinquenti comuni, in piedi vicino alla garitta, evidentemente già preavvisati, corrono a trascinare via il corpo per le gambe.
L'appello continua...
La canna della carabina continua a spuntare dalla finestra... - Avanti un altro! - Tocca a me...
Non riesco a staccare gli occhi dalla canna e dalla mano rossa e pelosa che la regge, con il grosso indice appoggiato al grilletto.
Era paura? Non era solo paura della morte, ma ribrezzo, orrore davanti all'infamia di quella morte per mano di un boia mezzo ubriaco, una morte oscura, squallida, una morte da cani...
Non ci furono altri spari. Più tardi venimmo a sapere che la stessa cosa avveniva più o meno per ogni nuovo contingente. Nogtev uccideva personalmente uno o due nuovi arrivati a propria scelta. Non lo faceva per crudeltà personale. Ma con quegli spari voleva inculcare da subito il terrore nei nuovi arrivati, instillargli l'idea che non avevano più nessun diritto né via d'uscita, instaurare un regime di obbedienza automatica alla «legge delle Solovki».
 

La cella di rigore
Dalle memorie di Jurij Cirkov:
 
Prima del pranzo fui chiamato dal capo-piantone e mi notificarono che avevo avuto cinque giorni di cella di rigore per insubordinazione.
Nello «spogliatoio» mi denudarono, mi perquisirono e mi ordinarono di indossare solo i pantaloni e la camicia sul corpo nudo, e le scarpe sui piedi nudi. Poi mi chiusero nella cella per cinque giorni. La cella è una specie di tubo di cemento orizzontale, del diametro di circa 180 centimetri e lungo circa 5 metri. A metà era fissato al cemento un sedile di ferro e sulla parete, di lato, c'era una stretta tavola incernierata, che veniva abbassata da mezzanotte alle sei di mattina, il tempo previsto per il sonno. Il resto del tempo si poteva stare in piedi, camminare o sedere sullo sgabello di metallo. Quando entrai in cella sentii subito la morsa del freddo e dell'umidità. Non c'era riscaldamento e fuori c'era la neve. Decisi di scaldarmi muovendomi, ma mi accorsi che la sedia di ferro impediva il passaggio, perché i bordi taglienti del sedile ferivano le ginocchia. Anche star seduto si rivelò impossibile: il ferro gelido raffreddava talmente attraverso i pantaloni leggeri che sembrava di star seduti su un blocco di ghiaccio.
Non restava che camminare per non raffreddarsi mortalmente, camminare per diciotto ore al giorno. Continuavo ad andare avanti e indietro, sbattendo contro quel maledetto sedile, ferendomi le ginocchia contro gli angoli taglienti. Alla fine il secondino aprì l'asse fissata alla parete e mi ordinò di sdraiarmi. Voleva dire che era mezzanotte e mi trovavo in cella di rigore da dieci ore, e ci dovevo stare per altre centoventi!
L'asse lunga 150 centimetri e larga 40 divenne il mio giaciglio. Se mi allungavo, le gambe mi penzolavano. L'angustia del letto mi impediva di raggomitolarmi, e in più non osavo appoggiarmi alla gelida parete di cemento. Tremavo dal freddo e ricominciai di nuovo a camminare. Ma si aprì lo sportellino nella porta e il secondino sibilò: - Disteso fino alle sei.
Finalmente strepitò la serratura ed entrò il sorvegliante:
- Alzarsi!
Saltai su da quel letto spaventoso. Chiusero a chiave la branda fino a mezzanotte. In fretta portarono 200 grammi di pane e un bicchiere d'acqua e mi avvertirono che questo era il rancio per l'intera giornata. Mangiai metà del pane, bevvi l'acqua e di nuovo su e giù, su e giù.
Una lunghissima giornata. Mi sembrava che fossero passati molti giorni. Le forze venivano meno. Le ginocchia erano ferite e sanguinavano. Caddi diverse volte e alla fine persi i sensi. Mi fecero rinvenire, poi mi rimandarono in cella. Avevo trascorso solo i primi tre giorni di cella di rigore, ma mi sembravano più di una settimana...
 

Il giusto, su cui si regge la terra tutta
Dalle memorie di Sirjaev:
 
Non ricordo il suo cognome, e poi ne sapevamo pochi alle Solovki. Non serviva, perché tutti conoscevano ugualmente padre Nikodim, íl "prete Consolatore".
Padre Nikodim ottemperava i suoi doveri di pastore anche alle Solovki.
La veste talare si era strappata fino all'indecenza lavorando nel bosco, ed era stato necessario accorciarne gli orli. Il copricapo da prete con cui era entrato in prigione era sparito da un pezzo, così padre Nikodim si copriva la testa canuta con un berretto da soldato dell'Armata rossa donatogli da chissà chi, su cui era ben visibile il segno della stella rossa staccata.
- Non è l'abito che fa il monaco, - sorrideva padre Nikodim - e poi tutto quel che serve ce l'ho in ordine, me l'hanno fatto: una croce di legno intagliata per benino, appesa a una cordicella sotto il vestito, una stola corta di panno e una teca per il viatico, ricavata da una gavetta piatta militare tedesca, con un bel coperchio chiudibile...
Padre Nikodim non rifiutava mai nulla. Celebrava sottovoce funzioni di supplica e di suffragio in tutti gli angoli, confessava, comunicava...
Egli trascorse con letizia tutto il suo lungo cammino di vita. Da questa letizia non si separò neppure nei suoi ultimi giorni alle Solovki, ma anzi cercava di comunicarla a ciascuno: per questo l'avevano soprannominato "Consolatore".
Padre Nikodim non si sottrasse neanche alla Sekira e alla corona del martirio. A Natale avevano architettato, tutta la baracca (una ventina di uomini), di celebrare la messa al buio, prima della levata, finché le porte erano chiuse. Probabilmente fecero tardi. La scorta aprì la baracca nel momento in cui padre Nikodim cantava insieme a due cosacchi l'inno dei Cherubini, all'offertorio. Gli astanti fecero in tempo a fuggire sui pancacci, ma i tre vennero colti sul fatto.
Finirono tutti e tre alla Sekira.
In primavera chiesi a uno dei pochi che erano riusciti a tornare indietro, se conoscesse padre Nikodim.
- Il prete Consolatore? E chi non lo conosce alla Sekira! Raccontava «storie sacre» per notti intere nelle cataste.
- Quali cataste?
- Non lo sa? Non c'è mai stato? Beh, le spiego. D'inverno, sa, la chiesa della Sekira, dove stanno quelli a regime più duro, non viene riscaldata. Ti tolgono anche i vestiti e le coperte. Allora avevamo inventato questo sistema: si dorme a cataste, ci si dispone come tronchi, quattro a quattro di traverso gli uni sugli altri. Poi, di sopra, si ricopre la catasta con tutte le cianfrusaglie a disposizione. Dentro ci si riscalda col fiato. Naturalmente, non si riesce ad addormentarsi subito. E allora ascoltiamo le «storie sacre» del prete Consolatore... e l'anima si addolcisce...
- Quand'è che gli scade la condanna?
- L'ha già terminata. Proprio a Pasqua. Aveva celebrato di notte in un angolo il Mattutino di Resurrezione, si era scambiato il bacio pasquale con noi. Poi ci siamo sdraiati a catasta per dormire un po' e lui ci ha raccontato la «storia» della resurrezione di Cristo, ma al mattino, quando abbiamo disfatto la catasta il nostro Consolatore non si è alzato.
Quanti uomini aveva accompagnato a morire durante l'inverno, e lui se n'è andato da solo... Del resto, che bisogno aveva di un accompagnatore? Lui la strada la sa.
 

Un gioco crudele
Anche nell'evacuazione degli ultimi detenuti del lager il livello di ferocia non si abbassa mai, come testimonia Olga Mane:
 
Le fucilazioni di massa dell'autunno 1937 non toccarono la brigata dei raccoglitori di alghe sull'isola di Anzer. Tuttavia, con il primo sciogliersi dei ghiacci in primavera, giunse una nave che doveva trasferire i prigionieri del lager a Kem', al regime carcerario.
Dalla nave calarono una barca e questa si fermò a qualche metro dal molo su cui la nostra brigata stava schierata in attesa, non riuscendo a superare lo strato compatto di banchisa. La barca ballava e sbatteva contro i blocchi di ghiaccio, ma non avanzava. Allora i sorveglianti portarono un'asse molto lunga, che appoggiarono tra il molo e il bordo della barca.
Per prima salì sul «ponticello» l'anziana Olga Nikolaevna Rimskaja-Korsakova, parente del celebre compositore. Questa scivolò giù dall'asse e in un istante scomparve, stritolata dai blocchi di ghiaccio.
Allora cercò di strisciare carponi lungo l'asse la sua amica, Ol'ga Kramerova, che sapeva otto lingue. Ma anche lei non riuscì ad aggrapparsi all'asse coperta di brina, il suo ultimo grido si mischiò al rumore della risacca. Scomparve in acqua anche Ol'ga Petrovna Gorochova...
I sorveglianti, che pure dall'aspetto sembravano esseri umani, commentavano allegra-mente queste morti. Ridevano. Per loro era uno spettacolo.
La schiera dei detenuti rimase agghiacciata, paralizzata dalla fine di quelle persone e da quel riso... Allora fecero scattare di otturatori: - Chi non si muove gli spariamo! Anch'io strisciai sull'asse. Quanti ancora ne caddero in acqua non lo so.
Non ebbi più la forza di girarmi verso Anzer.
Le Solovki nella mia memoria sono quel 9 aprile 1938 e l'acqua nera del promontorio di Ken'ga, sull'isola di Anzer.


Molto resterebbe ancora da dire circa le testimonianze eroiche di molti dei detenuti; possiamo solo aggiungere le parole con cui Jurij Brodskij termina l'Introduzione del suo libro: "Grazie al sacrificio di questi uomini le Solovki, proprio come la croce di Cristo, da simbolo di repressione e di morte sono diventate nella nostra coscienza un simbolo di purificazione".

a cura di Chiara Rossi - testo non rivisto dal relatore -

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