Dopo la presentazione della mostra da parte del prof. Filippetti gli abbiamo rivolto alcune domande, che ci aiutassero a capire meglio l'origine della sua passione per Giotto e ci permettessero di guardare gli affreschi con il suo stesso sguardo, carico di stupore ed attenzione.
Dopo la Cappella degli Scrovegni... ancora Giotto. Da cosa nasce questa frequentazione appassionata ed appassionante con l'arte di Giotto?
Giotto concepisce la vita come militia, non fantasticando, non sognando, ma trafficando - come insegna la nota parabola evangelica - il talento che Dio gli ha dato. Quella di Giotto è un'arte militante, che volentieri si piega ad attestarsi sugli avamposti di un'ormai secolare battaglia.
La crisi catara-albigese, reviviscenza dell'antico dualismo gnostico-manicheo, nonché per tanti versi anticipatrice dell'odierno spiritualismo new age, aveva fatto irruzione in Occidente poco dopo il Mille e si era così ingigantita attorno al 1200 da costituire un pericolo mortale per la Chiesa; quest'ultima rispose efficacemente non tanto con la crociata, quanto valorizzando ciò che lo Spirito aveva suscitato: la carità di Francesco e l'intelligenza culturale di Domenico, ma anche di un francescano come Antonio da Padova, poi degli Agostiniani, riorganizzati nel 1256. Figure umanamente affascinanti, capaci di comunicare la bellezza della verità. A volte artisti essi stessi (Il Cantico di Frate Sole non è forse la prima grande pagina della poesia italiana?), furono generatori dei massimi capolavori medievali quando il loro fascino intersecò il genio di Dante e di Giotto.
Giotto nella Cappella degli Scrovegni di Padova mette stupendamente in scena l'avvenimento dell'Incarnazione e della Redenzione; nella Basilica superiore di Assisi il suo permanere nella storia attraverso il fascino umano della santità cristiana. E' esattamente quello che è accaduto a me, travolgendo la mia vita: mi sono imbattuto anch'io in un carisma cattolico che mi ha lanciato nella grande avventura. Quanto più la Bellezza messa in scena da Giotto appassiona me, tanto più è appassionante spendere la vita per comunicarla.
Che cosa identifica la pittura di Giotto? In che modo si inserisce nel solco della tradizione e nel contempo la rinnova?
Giotto "spazioso", anticipatore della prospettiva che verrà perfezionata nel '400; Giotto capace di trasferire sulla parete o sulla tavola la tridimensionalità e la plasticità del reale, di contro alla bidimensionalità bizantina. E' scritto in tutti i testi. Ma qual è il motivo profondo? Agevolare l'immedesimazione, ovvero "l'inter-esse", il mio "esserci dentro": non spettatore distaccato, ma interlocutore attratto "dentro" il fatto narrato. Accade così la conoscenza "affettiva": il fedele, per il quale questi cicli pittorici sono pensati, è "colpito", ferito dalla Bellezza.
La tradizione è totalmente salvata, ma ridetta non nel linguaggio della trasfigurazione bizantina, bensì in quello della raffigurazione realistica. "Il realismo (non naturalismo), cioè una nuova filosofia della realtà (non un'imitazione illusionistica di essa), è il portato rivoluzionario della pittura giottesca". E' questo un acuto giudizio di Gian Lorenzo Mellini. Non naturalismo, ovvero non l'intenzione di "fotografare" in modo impassibile e impersonale (come si teorizzerà nel Verismo ottocentesco) l'apparenza naturale delle cose; non mìmesis "illusionistica" del reale (l'in-lusione è la soglia della de-lusione!), un po' come nel caso dei moderni "effetti speciali". Bensì amore alla realtà visitata dal Mistero, creata e redenta, punto d'incontro tra Dio e uomo. Scrive ancora il Mellini: "In Giotto c'è la riscoperta del senso maestoso e impressionante della figura umana in scala uno a uno nella sua storicizzata naturalezza. Così in questa pittura le persone sono vive e non in posa, sono esistenze comunicanti, non icone sigillate e impenetrabili, attori del dramma contemporaneo reclutati tra la gente, secondo quei principi del realismo, quali saranno propri anche di Masaccio per filiazione indiretta ma continua, di Leonardo e Caravaggio. Questa è una pittura di 'verità' e perciò, a suo modo, è un linguaggio assolutamente di rottura, quale naturalizzazione del numinoso e divinizzazione dell'umano". Con un neologismo coniato da Dante si potrebbe concludere: l'incarnarsi di Dio genera e fonda l'indiarsi dell'uomo.
Quale immagine di San Francesco traspare dalla pittura giottesca?
Georges Duby ne ha parlato in un celebre saggio. Il grande studioso in primo luogo sottolinea l'importanza di Francesco, e più in generale degli ordini mendicanti, nella sconfitta sia del panteismo che del dualismo cataro; in secondo luogo va acutamente alle radici del realismo tipico di quello che lui chiama "uomo gotico". Quel realismo del "segno" che giunge a Giotto.
Il creato è distinto dal Creatore, cui rimanda per "riflesso": le cose naturali "recano l'impronta di Dio e ne rivelano il volto"; "la materia partecipa dello splendore di Dio, lo glorifica e porta a conoscerlo. Francesco d'Assisi la concepiva appunto così. Come dire la commozione da cui era colto allorché riconosceva nelle creature il segno, la potenza e la bontà del Creatore?".
Giotto è pittore francescano come mentalità e dei francescani come committenza. Il suo astro sorge nella basilica di Assisi e di lì (in fecondo interscambio con Roma: dalla sede del carisma a quella dell'istituzione ecclesiale e viceversa, ovvero da Francesco a Pietro, da Pietro a Francesco!) s'irradia, toccando altri grandi luoghi francescani: i conventi di Rimini e Ravenna, il Santo a Padova, Santa Croce a Firenze, Santa Chiara a Napoli, forse San Francesco in Borgo Sansepolcro (è di pochi mesi fa il rinvenimento di una giottesca Santa Caterina d'Alessandria).
Il Francesco di Giotto rifiuta la vita piatta, fa sogni di gloria cavalleresca, ma la sua vita procede per sentieri zigzaganti. Fino a quel giorno del 1206, quando gli parla il Crocifisso di San Damiano. E' la svolta. E Giotto la sottolinea con un potente escamotage: nelle tre scene che la precedono gli edifici sono illuminati da occidente. A partire da questa scena la luce entra invece da oriente: la strada di Francesco ha ora trovato il suo orientamento.
Papa Benedetto XVI il 1 settembre 2006 parlando ai preti della diocesi di Albano, ha detto di san Francesco:
"Non era solo un ambientalista o un pacifista. Era soprattutto un uomo convertito. Ho letto con grande piacere che il vescovo di Assisi, monsignor Sorrentino, proprio per ovviare a questo 'abuso' della figura di san Francesco, in occasione dell'ottavo centenario della sua conversione vuol indire un 'Anno di conversione', per [...] far capire che cos'è la conversione collegandoci anche alla figura di san Francesco, per cercare una strada che allarghi la vita. Francesco prima era quasi una specie di play-boy. Poi, ha sentito che questo non era sufficiente. Ha sentito la voce del Signore: 'Ricostruisci la mia casa'. E man mano ha capito cosa voleva dire 'costruire la casa del Signore'".
In un passaggio della lettera pastorale, monsignor Sorrentino spiega:
" 'Francesco, và, ripara la mia casa che, come vedi, è tutta in rovina'. Questa parola del Crocifisso spinse immediatamente Francesco a dedicarsi al restauro materiale della chiesetta di San Damiano e di altre chiese. Ma poteva limitarsi a questo il significato di quella voce? I biografi vi leggeranno la missione del Poverello per il rinnovamento spirituale della cristianità. È indubbio che vi fosse anche questo. A me sembra tuttavia che nel travaglio spirituale che il giovane Francesco stava vivendo, quella parola di vocazione e di missione fosse da lui percepita innanzitutto come un invito a portare fino in fondo la conversione già iniziata, facendo propri l'ansia e i disegni di Cristo per la sua Chiesa".
Quel giorno del 1206 la chiesetta di San Damiano era fatiscente; vent'anni dopo, lunedì 5 ottobre 1226, Santa Chiara abbraccia l'amico carissimo davanti alla chiesa di San Damiano che Giotto dipinge come una splendente basilica arnolfiana: l'opera di Francesco ha riportato il fascino nella Chiesa di Dio.
Cosa rende attuale la pittura di Giotto? In che modo essa parla ancora oggi?
A Padova come a Firenze o ad Assisi l'arte di Giotto colpisce tutti. Ma colpisce davvero in profondità se la si accosta con cuore simpatetico: a distanza di 700 anni il dramma umano è infatti lo stesso. C'è chi fugge lontano dal proprio "cuore" evadendo verso gli eterei lidi dello spiritualismo e chi invece va ad ingorgarsi nel materialismo volgare. Ma c'è anche chi, per grazia, viene preso e liberamente si lascia attrarre. Benedetto XVI il 24 marzo scorso, ricevendo in udienza la Fraternità di Comunione e Liberazione, ha detto: "Lo Spirito Santo ha suscitato nella Chiesa, attraverso don Giussani, un Movimento, il vostro, che testimoniasse la bellezza di essere cristiani in un'epoca in cui andava diffondendosi l'opinione che il cristianesimo fosse qualcosa di faticoso e di opprimente da vivere".
Quella di Giotto è un'arte che testimonia la bellezza dell'essere cristiani e questa è una cosa - direbbe Dante - "che 'ntender no la può chi non la prova".
In che modo Bellezza e Verità si intrecciano e dialogano tra loro nell'arte di Giotto?
Rispondo icasticamente. Chiede Pilato a Gesù: che cos'è la verità? Quid est veritas? L'antico aforisma provvede a rispondere, con perfetto anagramma della domanda: "Est vir qui adest". La verità è quell'Uomo lì, presente davanti a me e a te. Quel fascino umano, quell'attrattiva esultante in un verso del francescano Jacopone da Todi: "Cristo mi attrae tutto tanto è bello". Veritatis splendor: l'arte di Giotto riveste la Verità di splendente Bellezza. Bellezza reale.
C. R.